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Non è un prodotto anche questo?


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Le shopping bag e la diffusione del brand

Natale, tempo di regali e quindi di shopping!

Pensateci bene, qual è una delle immagini che più fa pensare ad ore e ore passate in giro per negozi a fare compere?

Questa!

too many bags?

too many bags? by isstanners on Flickr.

Andare in giro carichi di buste non è solo un modo per far vedere che si è comprata tanta roba, ma anche un modo per far vedere quali brand si preferiscono.

Un blog dell’Huffington Post, parlando di una busta di Louis Vuitton dice:

It doesn’t matter what you put in there — your lunch, your gym clothes, treat it like a purse, or hell, leave it empty! As far as anybody else is concerned, you have a new bag in there. You’re rich, trendy, and everybody loves you.

Sì perché le buste, o per dire in modo più glamour le shopping bag, sono un’ulteriore occasione per mostrare in giro il proprio marchio, e quindi un’opportunità di pubblicità più o meno gratuita che non può essere sottovalutata. Deve anzi essere considerata molto importante quando si attivano dei processi di aumento della riconoscibilità del brand o di una sua ulteriore diffusione.

Già nel 2004 il New York Times, nell’articolo Putting the bag into branding, inquadrava bene la situazione:

It is a brainless form of advertising for a label but many designer fashion labels don’t fully exploit this item, or other forms of packaging, as a means to heighten their identity in the worldwide branding game.

Era sì dedicata al mondo della moda, ma il discorso non cambia molto anche per le gelaterie o i ferramenta.

Diciamo subito che questa opportunità è stata colta in pieno dai marchi commerciali più famosi, e viene ormai regolarmente applicata in tutti quei negozi, che siano catene in franchising o flagship store monomarca, che hanno stock di buste di tutti i tipi con il proprio logo bene in evidenza.

Ma per quanto riguarda le piccole realtà?
Sfortunatamente la situazione non è delle più rosee, anzi devo dire che è uno dei fattori che viene spesso poco considerato o abbandonato presto.

E questo è un peccato, perché significa una scarsa comprensione di quanto sia importante il proprio brand. Questa scarsa comprensione è a mio parere indice di uno altrettanto scarso spirito imprenditoriale, che spesso guida male gli affari e porta ad un declino dell’attività.

Perché parliamoci chiaro: volere un brand forte vuol dire volere crescere.

Come detto non è sempre così.

Quello che ho visto, in piccole realtà commerciali, è un’ottima partenza. Magari ci si affida ad un bravo studio grafico, si progetta e si sviluppa un marchio colorato e con un bel nome. Diciamo per una gelateria, tanto per fare un caso reale. All’inaugurazione abbiamo quindi il brand ovunque: grosso sull’insegna, sui tovaglioli, sugli scontrini e sulle buste per l’asporto.

Poi magari le cose iniziano ad andare un po’ peggio, in una fase di assestamento è normale. E ci si chiede quindi dove poter ridurre i costi per guadagnare di più (e già stiamo messi male). Magari i tovaglioli diventano bianchi, si riduce la carta dello scontrino eliminando il superfluo, e ci si affida a buste di plastica anonime.

Questo per me è un grave errore perché, di tutte le opzioni possibili, scegliere quella che riduce la visibilità del proprio marchio è particolarmente suicida.
Diciamo che comunque il gelato è molto buono. Bene, prima portandolo a casa di qualcuno restava la busta con il brand e l’indirizzo, ora si dirà solo “Ah sì, della gelateria a viale Asturfia…“, ma appena finito il dessert nessuno più si ricorderà dove era stato preso.

E tutto questo per risparmiare quanto? Qualche decina di euro? Poche centinaia?
Ma siamo sicuri che ne vale davvero la pena?

Quello che ho notato è che le realtà piccole che fanno attenzione alla diffusione e visibilità del brand sono quelle comunque più riconosciute, e magari sono quelle che nel tempo hanno aperto una o due sedi oltre al negozio storico.

E sono quei posti che quando porti la busta da qualcuno subito la riconosce e dice “Ah, la torta Pasqualina della pasticceria Sbaraffi!” oppure “Meno male che hai portato la pizza del Forno della Nonna!”

Fateci caso.

E resto nel campo alimentare solo per comodità, ma il discorso vale per qualsiasi attività commerciale.
Non è necessario che ogni nuovo negozio miri ad aprire una catena mondiale, anche se quella dovrebbe essere l’aspirazione di un imprenditore, però spesso si punta molto sul brand all’inizio, magari investendoci parecchio e avendo una giusta idea della sua importanza.

Poi però si trascura uno degli elementi fondamentali: la sua diffusione.
E le buste sono uno dei metodi principali per diffondere il proprio brand.

Non prendete delle brutte buste bianche di plastica. Magari prendete delle brutte buste (e sul concetto di brutto ci tornerò), ma metteteci il vostro brand!

Federico


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Una piccola sala giochi di mare…

Prendo ad esempio un fatto della mia infanzia per analizzare una situazione che a volte capita di trovare.
Non so perché mi è rimasta impressa, sarà che magari sono sempre stato un consumatore attento, chissà…

Come tutti i bambini andavo in vacanza con i miei genitori, e avendo casa al mare si andava lì.

Quello era il periodo del bo0m dei videogiochi, quindi in una località fortemente turistica c’erano cinque/sei sale specializzate e macchinette in ogni bar o stabilimento balneare.
E non parlo di slot machines o VLT, parlo proprio di questi cosi qui (che sono anche troppo nuovi):

Memory Lane at Santa Monica Pier

Memory Lane at Santa Monica Pier di ianmcburnie su Flickr.
Licenza CC by-nc 2.0

Per chi non se le ricorda, queste macchinette funzionavano a moneta (coin-op sta per coin operated, funzionante a moneta). La moneta poteva essere o da 200/500 lire o un gettone da cambiare presso la cassa.

Questa sala in particolare aveva dei giochi che mi piacevano molto, inoltre era piccola e poco frequentata, quindi non c’erano file e si poteva giocare tranquillamente.

Aveva però un problema: il gestore aveva deciso di non usare i gettoni, ma di cambiare le banconote in monete da 200 lire.
Questo sistema aveva ovviamente dei vantaggi, principalmente riconducibili a costi di gestione inferiori (non serve acquistare un oggetto e gestirlo), senza contare che cambiare i soldi è comunque un’azione da compiere prima di consumare, e questo crea un potenziale blocco che potrebbe ostacolare qualche cliente. In parole povere, se ho 200 lire in tasca le metto, gioco e me ne vado. Se ho 1000 lire e le devo cambiare in gettoni che poi non mi servono ad altro, ci penso due volte e magari non lo faccio.
Il lato negativo è ovviamente quello che non è possibile modificare istantaneamente il costo della partita, ma serve un intervento del fornitore degli apparati. Questi erano (quasi) sempre a noleggio, quindi la scelta del metodo di pagamento poteva derivare anche da questo fattore.

Tornando al discorso,  non ricordo esattamente chi sparse la voce, ma in pratica si era diffusa la notizia che cambiando almeno 2000 lire il gestore “regalava” una moneta da 200 ogni 10. In pratica se cambiavi 2000 lire ti dava 11 monete.

Era ovviamente falso, e il gestore fu anche un po’ alterato a vedere quattro marmocchi che volevano soldi gratis. Non era possibile fare una cosa del genere usando le monete reali. Era possibile farlo però usando una moneta propria, cioè il gettone.

Il gestore non si rese conto, perché non capì cosa i suoi clienti gli stavano dicendo, che aveva di fronte un modello promozionale vincente.
Doveva solo modificare il suo esercizio e applicarlo.

La cosa interessante è che nessuna delle altre sale della città, tra quelle che invece usavano i gettoni, applicò mai una politica promozionale (e quindi di fidelizzazione) di questo tipo.
Qualcosa del genere, ma su numeri molto alti (tipo se cambi in gettono 10mila lire), uscirono fuori solo quando le sale giochi iniziarono a chiudere una dopo l’altra.
Quando tutti i ragazzi avevano un Game Boy in mano e il Super Nintendo in salotto.

Nessuno andava più in sala giochi, i locali chiusero e divennero altro.

Certo, una promozione di questo tipo non avrebbe impedito l’inevitabile chiusura.
Avrebbe però consentito, se applicata in tempo, di fidelizzare un buon numero di clienti e in questo modo quindi aumentare i profitti.

Un’occasione mancata, soprattutto perché, e questa è la cosa che più mi è rimasta impressa, non si è ascoltata la propria clientela.
E questo è un errore imperdonabile.

Federico