Ripetuto fino allo sfinimento, tra polemiche, dichiarazioni di entusiasmo e lavori forzati, tra qualche mese parte Expo Milano 2015.
Expo, come tutto ormai, ha un suo logo. Precisamente questo.
Devo dire che non mi è mai particolarmente piaciuto, lo trovo un po’ confusionario e troppo ricco.
Sembra quasi uno di quei disegni che si vedono solo col foglio di plastica rosso o verde, o peggio quelle stampe confuse che dovevi fissare per dieci minuti e appariva qualcosa (ovviamente io non c’ho mai visto nulla).
Ma non voglio parlare del logo di Expo, ma dei loghi.
Sì perché non so se l’avete notato ufficialmente ce n’è uno solo, ma lo stile, la grafica e l’idea generale del logo di Expo si vede un po’ in giro.
Anche con aziende o organizzazioni che non c’entrano con Expo.
Facciamo un paio di esempi, partendo da quello che sicuramente colpisce di più, il logo per i 30 anni di Findomestic.
Nel sito e nella pubblicità che passa in TV il logo è messo anche prima del logo ufficiale dell’azienda, come succede per chi è sponsor di Expo (quello vero).
Non so quindi quanto la cosa sia voluta, in un vortice televisivo molto incentrato sull’evento di Milano, però sicuramente quello che non si può negare è l’uso dei colori, che sono praticamente gli stessi, e anche la scelta di sovrapporre delle lettere è quella del logo ufficiale.
L’idea qui è un po’ diversa, però sempre la fusione di oggetti colorati ritorna.
I colori meno, almeno nel logo ufficiale, ma li ritroviamo in versione pastello un po più simili nell’esplosione dei segni (ognuno dovrebbe significare qualcosa).
Ora io non sono né un grafico né tanto meno un esperto di loghi, riporto solo una mia impressione su una sorta di deja vu del brand che viene costantemente riportato quasi dappertutto in questi anno dell’Expo.
Sicuramente la visibilità totale del logo di Expo ispira parecchio i loghi di quest’anno, sia in modo esplicito che magari un po’ meno voluto, questo è palesemente fuori discussione.
Un evento di questa portata non può fare trend e coinvolgere in qualche modo tutte le attività del paese, particolarmente dal punto di vista visivo. Non per nulla, ne sto parlando anche io.
E voi, che ne pensate? Avete visto in giro qualche altro logo Expo-inspired?
Andare in giro carichi di buste non è solo un modo per far vedere che si è comprata tanta roba, ma anche un modo per far vedere quali brand si preferiscono.
It doesn’t matter what you put in there — your lunch, your gym clothes, treat it like a purse, or hell, leave it empty! As far as anybody else is concerned, you have a new bag in there. You’re rich, trendy, and everybody loves you.
Sì perché le buste, o per dire in modo più glamour le shopping bag, sono un’ulteriore occasione per mostrare in giro il proprio marchio, e quindi un’opportunità di pubblicità più o meno gratuita che non può essere sottovalutata. Deve anzi essere considerata molto importante quando si attivano dei processi di aumento della riconoscibilità del brand o di una sua ulteriore diffusione.
It is a brainless form of advertising for a label but many designer fashion labels don’t fully exploit this item, or other forms of packaging, as a means to heighten their identity in the worldwide branding game.
Era sì dedicata al mondo della moda, ma il discorso non cambia molto anche per le gelaterie o i ferramenta.
Diciamo subito che questa opportunità è stata colta in pieno dai marchi commerciali più famosi, e viene ormai regolarmente applicata in tutti quei negozi, che siano catene in franchising o flagship store monomarca, che hanno stock di buste di tutti i tipi con il proprio logo bene in evidenza.
Ma per quanto riguarda le piccole realtà?
Sfortunatamente la situazione non è delle più rosee, anzi devo dire che è uno dei fattori che viene spesso poco considerato o abbandonato presto.
E questo è un peccato, perché significa una scarsa comprensione di quantosia importante il proprio brand. Questa scarsa comprensione è a mio parere indice di uno altrettanto scarso spirito imprenditoriale, che spesso guida male gli affari e porta ad un declino dell’attività.
Perché parliamoci chiaro: volere un brand forte vuol dire volere crescere.
Come detto non è sempre così.
Quello che ho visto, in piccole realtà commerciali, è un’ottima partenza. Magari ci si affida ad un bravo studio grafico, si progetta e si sviluppa un marchio colorato e con un bel nome. Diciamo per una gelateria, tanto per fare un caso reale. All’inaugurazione abbiamo quindi il brand ovunque: grosso sull’insegna, sui tovaglioli, sugli scontrini e sulle buste per l’asporto.
Poi magari le cose iniziano ad andare un po’ peggio, in una fase di assestamento è normale. E ci si chiede quindi dove poter ridurre i costi per guadagnare di più (e già stiamo messi male). Magari i tovaglioli diventano bianchi, si riduce la carta dello scontrino eliminando il superfluo, e ci si affida a buste di plastica anonime.
Questo per me è un grave errore perché, di tutte le opzioni possibili, scegliere quella che riduce la visibilità del proprio marchio è particolarmente suicida.
Diciamo che comunque il gelato è molto buono. Bene, prima portandolo a casa di qualcuno restava la busta con il brand e l’indirizzo, ora si dirà solo “Ah sì, della gelateria a viale Asturfia…“, ma appena finito il dessert nessuno più si ricorderà dove era stato preso.
E tutto questo per risparmiare quanto? Qualche decina di euro? Poche centinaia? Ma siamo sicuri che ne vale davvero la pena?
Quello che ho notato è che le realtà piccole che fanno attenzione alla diffusione e visibilità del brand sono quelle comunque più riconosciute, e magari sono quelle che nel tempo hanno aperto una o due sedi oltre al negozio storico.
E sono quei posti che quando porti la busta da qualcuno subito la riconosce e dice “Ah, la torta Pasqualina della pasticceria Sbaraffi!” oppure “Meno male che hai portato la pizza del Forno della Nonna!”
Fateci caso.
E resto nel campo alimentare solo per comodità, ma il discorso vale per qualsiasi attività commerciale.
Non è necessario che ogni nuovo negozio miri ad aprire una catena mondiale, anche se quella dovrebbe essere l’aspirazione di un imprenditore, però spesso si punta molto sul brand all’inizio, magari investendoci parecchio e avendo una giusta idea della sua importanza.
Poi però si trascura uno degli elementi fondamentali: la sua diffusione.
E le buste sono uno dei metodi principali per diffondere il proprio brand.
Non prendete delle brutte buste bianche di plastica. Magari prendete delle brutte buste (e sul concetto di brutto ci tornerò), ma metteteci il vostro brand!
Questo articolo esce in crosspost con il blog Glamis on Security, dove lo stesso tema è affrontato dal punto di vista della sicurezza aziendale.
Per via del lavoro ufficiale ho partecipato al Security & Risk Management Summit di Gartner. Tra i vari temi del convegno si è trattato anche di come le aziende debbano sempre di più occuparsi del social risk. Ovvero di quanto quello che succede sui social network possa provocare danni, anche molto gravi, all’immagine e al fatturato stesso dell’azienda.
La buona notizia è che ci sono gli strumenti per difendersi, come definire un’efficace social media policy, identificare un responsabile della social compliance e mettere in campo una squadra di marketing d’emergenza.
Ma andiamo con ordine e capiamo meglio qual è il rischio che corrono le aziende. E il rischio è reale e molto pericoloso.
Questo argomento è particolarmente interessante perché riguarda non solo la sicurezza e l’analisi del rischio, ma anche, e soprattutto, le strategie di marketing che un’azienda moderna deve mettere in pratica per difendersi.
Sono stati portati diversi esempi, anche con testimonianze dirette di aziende, sui vari aspetti dell’interazione tra una società e il mondo dei social network. Si è passati da sensibilizzare i dipendenti a come proteggere la propria privacy (e di riflesso l’immagine dell’azienda), a come attivare delle policy corrette per gestire un grande evento.
Il caso più emblematico presentato è stato quello del CIO durante le ultime Olimpiadi di Londra, che non solo ha spinto gli atleti ad usare i social network definendo policy opportune (qui il documento dettagliato), ma le ha anche applicate duramente, laddove si siano verificate delle violazioni che potevano compromettere l’immagine delle Olimpiadi.
Quello su cui vorrei focalizzare l’attenzione è tuttavia una problematica molto particolare, ovvero come gestire le emergenze di marketing che possono emergere quando esplode un “incidente” sui social network, e in seguito sulla stampa mainstream.
Partiamo dall’inizio.
È sempre successo che possa arrivare, dall’interno o dall’esterno, un evento che possa nuocere all’immagine dell’azienda o del brand. Magari questo incidente viene poi ripreso dalla stampa e causa problemi o danni gravi per cui deve intervenire il reparto di public relations.
La gravità di questo incidente può aumentare se l’azienda lega molto la sua immagine o le sue azioni a concetti di tipo etico. Ad esempio se siete una compagnia petrolifera che si autodefinisce “green”, e poi vi beccano a trivellare un parco nazionale in Nuova Zelanda, allora la gente potrebbe reagire molto male.
Ora questo come fa a peggiorare con i social network? Perché nei gruppi online prima, e nei gruppi di Facebook e similari dopo, si concentra un’enorme quantità di energia. L’energia cresce perché in questi gruppi di persone, anche molto ampi, parlano costantemente del “nemico”. Ne parlano e non vedono l’ora di avercelo davanti. E il nemico può essere la multinazionale petrolifera, se il gruppo è di ambientalisti, o una qualsiasi azienda che ha a che fare con gli animali, se il gruppo è di animalisti, come in seguito.
Questa energia, se scatenata in seguito ad un incidente, provoca una reazione a catena enormemente più potente rispetto al normale flusso di eventi che veniva generato con il semplice intervento della stampa. Perché non dimentichiamocelo, stiamo nel mondo del Web2.0, dello user generated content. E perché le cose che avvengono su internet, oggi, restano lì per sempre.
Ed è proprio questa caratteristica a cambiare le carte in tavola e a richiedere interventi eccezionali e tempestivi.
Esaminiamo quindi un caso reale, citato al convegno, che illustra molto bene la tempistica di questi eventi. E insegna quali sono gli errori da evitare.
Alcuni di voi ricorderanno del negozio Petland di Akron, Ohio.
Petland è una catena in franchising di negozi di animali che puntava ad apparire particolarmente attenta alla cura dedicata ai piccoli amici domestici.
Il 29 luglio del 2009 una dipendente del negozio Petland di Akron lascia due conigli maschi nella stessa gabbia, violando le politiche aziendali e la mission dell’azienda. Gli animali iniziano a picchiarsi selvaggiamente, tanto che la dipendente è costretta ad annegarli per evitare che muoiano di dolore dalle orribili ferite che si sono provocati. Ma la cosa più grave non è questa squallida e triste vicenda, quanto il fatto che la stessa ragazza posta sul suo profilo Facebook una foto sorridente tenendo gli animali morti come trofeo.
Questo evento scatena una serie di eventi riassunti in questo schema:
Fonte: Gartner.
Il giorno dopo un amico su Facebook della ragazza segnala la cosa alla Humane Society, e successivamente alla PETA. La PETA chiede chiarimenti a Petland, che non considera adeguatamente la vicenda e non risponde alle richieste dell’organizzazione. Cinque giorni dopo la PETA chiama, utilizzando i social network, tutti i suoi iscritti all’azione e alla protesta contro il negozio di Akron e tutti gli altri negozi Petland degli Stati Uniti.
Otto giorni dopo la pubblicazione della foto Petland chiude il negozio di Akron, licenziando tutti i dipendenti (che passeranno i loro guai personali).
Trovate dettagli sulla vicenda, e la brutta foto della ragazza, sul sito ufficiale PETA.
Questo non è solo un case study molto utile a comprendere la potenza dell’energia racchiusa nei social network, ma anche un esempio dei danni che questo tipo di incidenti può portare ad un’azienda. Sì perché oltre a perdere un negozio, Petland ha avuto al sua reputazione distrutta, con danni che seguono ancora adesso.
Provate a cercare “Petland” su Google Immagini:
Ancora oggi compare la foto incriminata e la terza immagine, una di quelle più visibili, è di persone con cartelli “Petland uccide i cuccioli“.
Chi si affiderebbe ad un’azienda così, ora?
E tutto questo solo per non essersi accorti di un fatto molto grave, e soprattutto per non aver risposto pubblicamente e tempestivamente. E il motivo è semplice: l’azienda non aveva una social media policy per i dipendenti (la ragazza nemmeno pensava che la sua azione l’avrebbe portata a perdere il lavoro), non effettuava un monitoraggio dell’andamento del brand sulla rete, e non aveva un flusso di gestione della segnalazione proveniente da un gruppo di attivisti.
Ma come è possibile difendersi da questo tipo di incidenti? Non è possibile. Avverranno sempre, e sempre più spesso dato l’enorme numero di persone in tutto il mondo che usa e userà i social network.
È possibile però mitigare il rischio, attraverso un’attenta gestione degli eventi.
Al fine di ottenere questo risultato sono è necessario un cambiamento di mentalità dei settori marketing e public relations dell’azienda, e l’introduzione di due figure fondamentali: il vice presidente della Social Compliance e il team di marketing di emergenza.
Il ruolo del VP Social Compliance (e pongo parecchia attenzione sulla qualifica di vice presidente, indice di quanto alto deve essere il commitment dell’azienda) è quello di definire le social media policy, da applicare sia internamente che esternamente. Definire le politiche di utilizzo vuol dire trasmettere al consumatore, cliente dell’azienda o più in generale un suo stakeholder, un’immagine coerente ed efficace del brand aziendale. Include sia formare degli operatori che alimenteranno i contenuti sui social network utilizzati, sia definire qual è il messaggio che l’azienda vuole trasmettere al suo pubblico e come farlo. Questo implica anche sensibilizzare i dipendenti sull’uso dei social network poiché potenzialmente dannoso per l’immagine dell’azienda. Questo avviene principalmente mostrando come impostare i livelli di privacy e come e cosa dire se non si vuole rischiare di creare danni. Molte persone nemmeno si rendono conto di quanto espongono pubblicamente, e quanto possono danneggiare non solo l’immagine aziendale, ma anche la propria.
Cosa ancora più importante, deve monitorare, mediante tecniche di sentiment analysis, l’andamento del brand aziendale sui gruppi internet. Solo in questo modo potrà identificare prontamente dei potenziali eventi pericolosi per l’immagine aziendale, e potrà definire le strategie di risposta per la gestione del rischio.
Una volta identificato un focolaio di rischio, è necessario che il responsabile della social compliance faccia intervenire il team di marketing d’emergenza, ovvero una squadra di professionisti delle pubbliche relazioni e della pubblicità addestrati a gestire situazioni di questo tipo. Loro interagiranno con le persone che hanno iniziato l’incidente, rispondendogli, indagando su cosa realmente è successo e fornendo il prima possibile una versione ufficiale dell’azienda sulla vicenda in questione.
Solo in questo modo sarà possibile non evitare che si inneschi un incidente, ma gestirlo e ricondurlo subito sotto il controllo dell’azienda. Questo per cercare di dominare il possibile rischio, e non subirlo.
Certamente questo tipo di organizzazione aziendale richiede molte risorse e molta maturità da parte dell’azienda, ma sta diventando praticamente obbligatorio per tutte le aziende esposte, per un motivo o per un altro, all’attenzione di gruppi di attivisti sui social network. Il rischio aumenta ovviamente con l’aumentare della dimensione dell’azienda.
C’è da dire che ci sono diversi documenti da cui trarre ispirazione. Il sito Social Media Governance propone un ben fornito database di policy già definite da alcune delle più grandi aziende del mondo. Basta capire qual è il ramo industriale della propria azienda e si può tranquillamente trarre ispirazione.
Tutte le società dovrebbero inoltre (e molte già lo fanno) usare tecniche di sentiment analysis per monitorare l’andamento dei propri brand sulla rete. Solo che questo monitoraggio va esteso dal semplice controllo delle campagne di marketing, anche alla difesa dell’immagine dell’azienda.
Perché l’importante resta sempre dare una risposta all’utente arrabbiato o deluso. E la risposta deve arrivare il prima possibile, deve essere puntuale e onesta.
Altrimenti non si potrà evitare la deflagrazione dell’energia dei social network, e si rischia di bruciarsi davvero.