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Le social media policy e il marketing dell’emergenza

Questo articolo esce in crosspost con il blog Glamis on Security, dove lo stesso tema è affrontato dal punto di vista della sicurezza aziendale.

Per via del lavoro ufficiale ho partecipato al Security & Risk Management Summit di Gartner. Tra i vari temi del convegno si è trattato anche di come le aziende debbano sempre di più occuparsi del social risk. Ovvero di quanto quello che succede sui social network possa provocare danni, anche molto gravi, all’immagine e al fatturato stesso dell’azienda.

La buona notizia è che ci sono gli strumenti per difendersi, come definire un’efficace social media policy, identificare un responsabile della social compliance e mettere in campo una squadra di marketing d’emergenza.

Ma andiamo con ordine e capiamo meglio qual è il rischio che corrono le aziende. E il rischio è reale e molto pericoloso.

Questo argomento è particolarmente interessante perché riguarda non solo la sicurezza e l’analisi del rischio, ma anche, e soprattutto, le strategie di marketing che un’azienda moderna deve mettere in pratica per difendersi.

Sono stati portati diversi esempi, anche con testimonianze dirette di aziende, sui vari aspetti dell’interazione tra una società e il mondo dei social network. Si è passati da sensibilizzare i dipendenti a come proteggere la propria privacy (e di riflesso l’immagine dell’azienda), a come attivare delle policy corrette per gestire un grande evento.

Il caso più emblematico presentato è stato quello del CIO durante le ultime Olimpiadi di Londra, che non solo ha spinto gli atleti ad usare i social network definendo policy opportune (qui il documento dettagliato), ma le ha anche applicate duramente, laddove si siano verificate delle violazioni che potevano compromettere l’immagine delle Olimpiadi.

Quello su cui vorrei focalizzare l’attenzione è tuttavia una problematica molto particolare, ovvero come gestire le emergenze di marketing che possono emergere quando esplode un “incidente” sui social network, e in seguito sulla stampa mainstream.

Partiamo dall’inizio.

È sempre successo che possa arrivare, dall’interno o dall’esterno, un evento che possa nuocere all’immagine dell’azienda o del brand. Magari questo incidente viene poi ripreso dalla stampa e causa problemi o danni gravi per cui deve intervenire il reparto di public relations.

La gravità di questo incidente può aumentare se l’azienda lega molto la sua immagine o le sue azioni a concetti di tipo etico. Ad esempio se siete una compagnia petrolifera che si autodefinisce “green”, e poi vi beccano a trivellare un parco nazionale in Nuova Zelanda, allora la gente potrebbe reagire molto male.

Ora questo come fa a peggiorare con i social network? Perché nei gruppi online prima, e nei gruppi di Facebook e similari dopo, si concentra un’enorme quantità di energia. L’energia cresce perché in questi gruppi di persone, anche molto ampi, parlano costantemente del “nemico”. Ne parlano e non vedono l’ora di avercelo davanti. E il nemico può essere la multinazionale petrolifera, se il gruppo è di ambientalisti, o una qualsiasi azienda che ha a che fare con gli animali, se il gruppo è di animalisti, come in seguito.

Questa energia, se scatenata in seguito ad un incidente, provoca una reazione a catena enormemente più potente rispetto al normale flusso di eventi che veniva generato con il semplice intervento della stampa. Perché non dimentichiamocelo, stiamo nel mondo del Web2.0, dello user generated content. E perché le cose che avvengono su internet, oggi, restano lì per sempre.

Ed è proprio questa caratteristica a cambiare le carte in tavola e a richiedere interventi eccezionali e tempestivi.

Esaminiamo quindi un caso reale, citato al convegno, che illustra molto bene la tempistica di questi eventi. E insegna quali sono gli errori da evitare.

Alcuni di voi ricorderanno del negozio Petland di Akron, Ohio.
Petland è una catena in franchising di negozi di animali che puntava ad apparire particolarmente attenta alla cura dedicata ai piccoli amici domestici.

Il 29 luglio del 2009 una dipendente del negozio Petland di Akron  lascia due conigli maschi nella stessa gabbia, violando le politiche aziendali e la mission dell’azienda. Gli animali iniziano a picchiarsi selvaggiamente, tanto che la dipendente è costretta ad annegarli per evitare che muoiano di dolore dalle orribili ferite che si sono provocati. Ma la cosa più grave non è questa squallida e triste vicenda, quanto il fatto che la stessa ragazza posta sul suo profilo Facebook una foto sorridente tenendo gli animali morti come trofeo.

Questo evento scatena una serie di eventi riassunti in questo schema:

Akron Petland Incident Timeline

Fonte: Gartner.

Il giorno dopo un amico su Facebook della ragazza segnala la cosa alla Humane Society, e successivamente alla PETA. La PETA chiede chiarimenti a Petland, che non considera adeguatamente la vicenda e non risponde alle richieste dell’organizzazione. Cinque giorni dopo la PETA chiama, utilizzando i social network, tutti i suoi iscritti all’azione e alla protesta contro il negozio di Akron e tutti gli altri negozi Petland degli Stati Uniti.

Otto giorni dopo la pubblicazione della foto Petland chiude il negozio di Akron, licenziando tutti i dipendenti (che passeranno i loro guai personali).
Trovate dettagli sulla vicenda, e la brutta foto della ragazza, sul sito ufficiale PETA.

Questo non è solo un case study molto utile a comprendere la potenza dell’energia racchiusa nei social network, ma anche un esempio dei danni che questo tipo di incidenti può portare ad un’azienda. Sì perché oltre a perdere un negozio, Petland ha avuto al sua reputazione distrutta, con danni che seguono ancora adesso.

Provate a cercare “Petland” su Google Immagini:

Ricerca Petland su Google Immagini

Ancora oggi compare la foto incriminata e la terza immagine, una di quelle più visibili, è di persone con cartelli “Petland uccide i cuccioli“.
Chi si affiderebbe ad un’azienda così, ora?

E tutto questo solo per non essersi accorti di un fatto molto grave, e soprattutto per non aver risposto pubblicamente e tempestivamente. E il motivo è semplice: l’azienda non aveva una social media policy per i dipendenti (la ragazza nemmeno pensava che la sua azione l’avrebbe portata a perdere il lavoro), non effettuava un monitoraggio dell’andamento del brand sulla rete, e non aveva un flusso di gestione della segnalazione proveniente da un gruppo di attivisti.

Ma come è possibile difendersi da questo tipo di incidenti? Non è possibile. Avverranno sempre, e sempre più spesso dato l’enorme numero di persone in tutto il mondo che usa e userà i social network.

È possibile però mitigare il rischio, attraverso un’attenta gestione degli eventi.

Al fine di ottenere questo risultato sono è necessario un cambiamento di mentalità dei settori marketing e public relations dell’azienda, e l’introduzione di due figure fondamentali: il vice presidente della Social Compliance e il team di marketing di emergenza.

Il ruolo del VP Social Compliance (e pongo parecchia attenzione sulla qualifica di vice presidente, indice di quanto alto deve essere il commitment dell’azienda) è quello di definire le social media policy, da applicare sia internamente che esternamente. Definire le politiche di utilizzo vuol dire trasmettere al consumatore, cliente dell’azienda o più in generale un suo stakeholder, un’immagine coerente ed efficace del brand aziendale. Include sia formare degli operatori che alimenteranno i contenuti sui social network utilizzati, sia definire qual è il messaggio che l’azienda vuole trasmettere al suo pubblico e come farlo. Questo implica anche sensibilizzare i dipendenti sull’uso dei social network poiché potenzialmente dannoso per l’immagine dell’azienda. Questo avviene principalmente mostrando come impostare i livelli di privacy e come e cosa dire se non si vuole rischiare di creare danni. Molte persone nemmeno si rendono conto di quanto espongono pubblicamente, e quanto possono danneggiare non solo l’immagine aziendale, ma anche la propria.
Cosa ancora più importante, deve monitorare, mediante tecniche di sentiment analysis, l’andamento del brand aziendale sui gruppi internet. Solo in questo modo potrà identificare prontamente dei potenziali eventi pericolosi per l’immagine aziendale, e potrà definire le strategie di risposta per la gestione del rischio.

Una volta identificato un focolaio di rischio, è necessario che il responsabile della social compliance faccia intervenire il team di marketing d’emergenza, ovvero una squadra di professionisti delle pubbliche relazioni e della pubblicità addestrati a gestire situazioni di questo tipo. Loro interagiranno con le persone che hanno iniziato l’incidente, rispondendogli, indagando su cosa realmente è successo e fornendo il prima possibile una versione ufficiale dell’azienda sulla vicenda in questione.

Solo in questo modo sarà possibile non evitare che si inneschi un incidente, ma gestirlo e ricondurlo subito sotto il controllo dell’azienda. Questo per cercare di dominare il possibile rischio, e non subirlo.

Certamente questo tipo di organizzazione aziendale richiede molte risorse e molta maturità da parte dell’azienda, ma sta diventando praticamente obbligatorio per tutte le aziende esposte, per un motivo o per un altro, all’attenzione di gruppi di attivisti sui social network. Il rischio aumenta ovviamente con l’aumentare della dimensione dell’azienda.

C’è da dire che ci sono diversi documenti da cui trarre ispirazione. Il sito Social Media Governance propone un ben fornito database di policy già definite da alcune delle più grandi aziende del mondo. Basta capire qual è il ramo industriale della propria azienda e si può tranquillamente trarre ispirazione.

Tutte le società dovrebbero inoltre (e molte già lo fanno) usare tecniche di sentiment analysis per monitorare l’andamento dei propri brand sulla rete. Solo che questo monitoraggio va esteso dal semplice controllo delle campagne di marketing, anche alla difesa dell’immagine dell’azienda.

Perché l’importante resta sempre dare una risposta all’utente arrabbiato o deluso. E la risposta deve arrivare il prima possibile, deve essere puntuale e onesta.

Altrimenti non si potrà evitare la deflagrazione dell’energia dei social network, e si rischia di bruciarsi davvero.

Federico


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Un benvenuto ad uno spot piacevole

Torniamo a parlare di spot alla radio, dopo l’infelice storia del defficiente (che nel frattempo ha ripreso ad andare in onda).

Sempre se ascoltate Radio 24, non potete non aver sentito la serie di spot di Welcome Italia.

Welcome Italia Logo

Gli spot sono disponibili per l’ascolto anche sul loro sito.
La nota molto positiva è senza dubbio un eccellente padronanza del mezzo. Il problema principale della “provocazione” del defficiente era che non avevano capito l’estrema familiarità del media radio, non avevano capito che quella voce che esce dall’altoparlante, dalle cuffie o dal cruscotto dell’auto.

Ora gli spot di Welcome Italia sono calmi, rilassati. Non ci sono insulti o urla, non c’è musica fastidiosa.

Ci sono al contrario voci pacate, amichevoli, che con garbo spiegano perché hanno scelto questo come loro provider di telefonia.
E, cosa molto interessante, lo dicono mettendoci la faccia, con nomi, cognomi e funzioni. Ovviamente si tratta di accordi commerciali, come sempre accade nella presentazione di case history così dettagliate. Ma è comunque un segnale molto forte nei confronti di nuovi clienti, anche perché le tipologie di aziende che vengono rappresentate sono molto diverse, ed è facile quindi che un nuovo potenziale cliente si identifichi in una di esse.

Presentarsi in prima persone, quindi, è sempre un fatto positivo, ma lo è ancora di più se si considera l’uso dello strumento.
Stavolta il messaggio passa molto bene, resta una bella sensazione e, soprattutto, rimane impresso il nome della società.

La cosa ancora più interessante è che Welcome utilizza lo stesso metodo, oltre che per i testimonial anche per cercare i propri agenti. Stavolta a parlare è direttamente l’amministratore delegato, che con la consueta calma e chiarezza illustra l’offerta per chi vuole rivendere i prodotti Welcome Italia.

In conclusione, vediamo quali sono i punti più efficaci di questa campagna pubblicitaria.

  1. Metterci la faccia. È sempre importante (lo sappiamo dai tempi di Carosello o recentemente con Giovanni Rana), ma lo è ancora di più quando si vuole portare come esempio i propri clienti. E sentire la voce che parla direttamente a chi cliente non è aiuta molto a creare un rapporto di fiducia e a spingere l’ascoltatore a saperne di più. Oppure a invogliare l’agente di commercio a capire se quella è un’azienda da rappresentare.
  2. Chiarezza e leggerezza. In totale opposizione al precedente caso, stavolta il messaggio è inviato in modo chiaro, semplice, con toni leggeri e garbati. E arriva. Questo smonta parecchie teorie su quanto sia importante la provocazione, l’alto impatto o il presunto infrangere le regole. Il caso Welcome Italia dimostra invece che basta parlare chiaro, diretto e in modo cortese, e quello che si vuole dire non solo sarà ascoltato, ma resterà.
  3. Padronanza del mezzo. L’ultimo punto è forse quello più importante nel capire il caso. Infatti su un altro mezzo di comunicazione non sarebbe stato così efficace il messaggio. Sappiamo benissimo che il mezzo è il messaggio, ma questo vuol dire saperlo usare. La radio è forse il medium più familiare che esista, e usarlo come se si stesse parlando ad un amico, con toni pacati e leggeri, vuol dire creare un messaggio vincente. E questo è davvero un caso emblematico.

Speriamo che molti seguano questo esempio, senza inciampare in “provocazioni” di cui, onestamente, non sentivamo la mancanza.

Federico


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Io non sono (d)efficiente!

Non so quanto ascoltiate la radio ma se lo fate con assiduità, e in particolare se ascoltate Radio24 (al momento forse i contenuti migliori dell’etere), non potete non averlo sentito.

È lo spot che vi da del defficiente. No, non ho sbagliato a scrivere ma dice proprio così.

“Ehi defficiente? Mi senti defficiente?
Sto parlando proprio con te defficiente che non sei altro!”

Dopo una serie di frasi così, dette con tono autoritario stile Sergente Hartman (ma senza parolacce), arriva il messaggio. Come avrete immaginato la d-efficienza di cui si parla è quella energetica, e il committente vuole farvi capire che usando i suoi prodotti spenderete di meno. Sarete finalmente efficienti (e non deficienti defficienti).

Di questa pubblicità se n’è parlato molto, anche su Radio24 ne ha parlato Gianluca Nicoletti a Melog (potete ascoltare il podcast qui).

Il problema qual è? Come detto in trasmissione da alcuni esperti e come visto dalle reazioni di gran parte del pubblico della radio, il mezzo scelto è stato completamente sbagliato da chi ha ideato la campagna.

Nessun fruitore di radio avrebbe mai pensato una cosa del genere. Perché chiunque ascolti la radio sa che è forse il medium più intimo per il suo utente. È quella che ci accompagna quando facciamo qualche altra cosa, che fa da sottofondo ad un azione (farsi la doccia, vestirsi, guidare, fare sport). Allo stesso tempo però influisce sulla nostra mente come se fosse una persona presente con noi mentre facciamo quella cosa. Come se stessimo in auto parlando con un amico, o a casa discutendo con un parente.

Fare uscire dall’altoparlante un insulto, all’improvviso e con quel tono, crea immediatamente un senso di rottura col medium, che provoca o lo spegnimento della radio, o il cambio di canale, o la perdita d’attenzione.

Io stesso avrò sentito decine di volte lo spot, eppure non ricordo il nome del prodotto, perché dopo gli insulti interrompo l’attenzione e non ascolto altro.

E non parliamo di provocazione, perché è vero che ne sto parlando anche io, ma questo non significa che ha raggiunto il suo scopo.
Lo scopo è raggiunto quando si fa girare il brand, come ha ricordato Oliviero Toscani proprio nella puntata di Melog linkata sopra.
Ma proprio Toscani, partito in tromba a difendere le pubblicità “politicamente scorrette”, fa marcia indietro quando capisce che magari in TV o sulla carta stampata poteva avere un senso. Perché, tanto per fare un paragone, lui faceva immagini su manifesti con il logo del brand in bella vista. E le immagini “provocatorie” venivano appunto riprese da tutti.

Ovvero: medium perfetto + creatività e provocazione perfette = risultato garantito.

Ma in radio no, in radio stai solo offendendo i tuoi potenziali clienti. E questo non mi sembra proprio un buon modo per fare spot.

Ci sarebbe qualcosa da dire anche sul committente, sempre intervistato da Nicoletti, però non vorrei mettere troppa carne al fuoco.
Ne riparleremo sicuramente quando analizzeremo un altro errore di questo tipo. Perché ce ne saranno in quantità.

Federico

P.S. La pubblicità per ora è stata sospesa, quindi forse un po’ di problemi di ritorno li ha avuti. Secondo il committente dovrebbe però riprendere, magari in altre forme. Vedremo.

P.P..S. No, il titolo è corretto e non è provocatorio: io ho tutte lampadine a risparmio energetico. Ma non di quella marca.